La fine della proprietà, da Verga alle Sezioni Unite.

A cura di Andrea Gangemi, Partner

È legittimo l’atto notarile con il quale ci si spogli della proprietà di un bene immobile, unilateralmente, lasciandolo allo Stato. Lo ha deciso una recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 11 agosto 2025, n. 23093), che non rappresenta solo l’approdo finale di un dibattito più che decennale tra dottrina e giurisprudenza: è un segno dei tempi.

La proprietà, diritto soggettivo assoluto per eccellenza, che nel diritto romano si estendeva significativamente, nella sua assolutezza ed integrità, ab inferos usque ad sidera, cardine del codice civile e del diritto privato in generale, viene qui abbandonata, rifiutata, negletta.

Un ribaltamento di visione che fa da contrappunto a ben diversi echi letterari.

Il pensiero va a Padron ‘Ntoni, che ne “I Malavoglia” aveva dovuto sì rinunciare alla proprietà della Casa del Nespolo, ma l’aveva venduta per far fronte ai debiti della famiglia. E la fine di quella proprietà aveva rappresentato una sconfitta, un fallimento, la conclusione di un’epoca. Un’onta che solo a distanza di due generazioni il nipote Alessi aveva lavato, riacquistando la casa.

Ma anche a Mazzarò, che nella celebre novella “La Roba” aveva passato la vita ad accumulare sconfinate distese di grano, di ulivi, di pascoli e vigneti, e che avrebbe voluto portare con sé tutti i suoi beni anche dopo la morte.

Se in quei casi la terra è vera “patria”, entità concreta fatta di sudore, fatica, ma anche di tradizioni e nutrimento vitale, oggi – nella visione del supremo Organo della giustizia civile – essa può trasformarsi in giogo di cui volersi liberare ad ogni costo: anche al costo di non guadagnarci nulla.

La vicenda esaminata dalle Sezioni Unite non si svolge in Sicilia, ma in Abruzzo, terra meravigliosa, ma anche luogo che trema, pietra che frana.

In questo contesto, la proprietà immobiliare può non essere più una ricchezza, una risorsa da far rendere e tramandare, ma diventare un costo, un peso, una fonte di pericoli e conseguenti responsabilità. E pertanto, ad avviso della Suprema Corte, è lecito liberarsene e abbandonarla allo Stato.

La Cassazione chiarisce che quest’ultimo non solo non è parte dell’atto notarile, ma non può neppure opporvisi.

Ai sensi dell’art. 827 c.c., infatti, “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”. Una volta che il proprietario abbia trascritto l’atto abdicativo della proprietà, dunque, il bene in questione rimane appunto vacante e viene acquisito dallo Stato, per legge, a titolo originario.

Tale esito può lasciare perplessi, in quanto i costi e i rischi di terreni che si trovino in stato di dissesto idrogeologico, in siti inquinati o che semplicemente non offrano alcuna utilità o possibilità di sfruttamento, vengono a ricadere sulla collettività. E vengono meno anche le pretese impositive legate agli immobili.

A tale proposito la stessa sentenza precisa che eventuali responsabilità del proprietario per danni già causati dagli immobili permangono anche dopo la rinuncia, così come le imposte maturate precedentemente; e permane anche la possibilità per i creditori del proprietario di esercitare l’azione revocatoria nei confronti dell’atto abdicativo, se ritengono di potersi poi soddisfare facendo espropriare quei beni.

Ma non si può impedire ad un soggetto di spogliarsi di un immobile, perché anche la rinuncia alla proprietà rientra nel più ampio diritto di disporne, sancito dall’art. 832 c.c..

Triste esito, tuttavia, di decisioni (di gestione del territorio; di politica legislativa; di aggravamento della posizione del privato proprietario), che finiscono per condurre ad una moderna mistica della rinuncia ai propri beni.

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