La liquidazione delle associazioni non riconosciute a fini conservativi

Quando liquidare non significa sciogliere o estinguere, ma tutelare.

A cura di Sara Palumbo, Associate

Premessa

Nel nostro Ordinamento giuridico sono disciplinate molteplici strutture organizzative: a quelle più comuni e note – le società di persone o di capitali – si affiancano realtà maggiormente dinamiche, spesso informali e capaci di rispondere con rapidità alle esigenze dei propri componenti, ovverosia le associazioni e le fondazioni.

Minimo comun denominatore di tali ultime realtà è il perseguimento di finalità non necessariamente legate all’attività economica ma, piuttosto, agli scopi più vari: culturali, professionali, sportivi, studenteschi, sindacali, politici, religiosi, mutualistici, ecc..

Con specifico riguardo alle associazioni, il Codice Civile offre una duplice categorizzazione: da un lato, le associazioni che posseggono la personalità giuridica, c.d. associazioni riconosciute; dall’altro, quelle che non posseggono tale caratteristica e per tale motivo vengono definite associazioni non riconosciute.

Alle prime sono riservate una serie di norme, inderogabili, che vanno a disciplinare ogni momento della vita associativa, dalla costituzione (e conseguente riconoscimento) della persona giuridica alla fase finale di estinzione, in cui la realtà cessa, per l’appunto, di esistere.

Le norme in parola non si estendono invece, per espressa previsione dell’art. 36 c.c., alle seconde, per le quali si dovrà guardare esclusivamente alla disciplina contenuta nello statuto di cui ogni associazione non riconosciuta (al pari di quelle munite di personalità giuridica) si deve dotare. Ciò non toglie che, nel regolamentare l’organizzazione dell’associazione non riconosciuta, gli associati possano decidere di mutuare la disciplina codicistica.

Ed è proprio qui che risiede la profonda differenza tra le due realtà: il Legislatore ha infatti inteso escludere un proprio intervento disciplinante o un’estensione analogica delle norme dettate per le associazioni riconosciute a quelle non riconosciute, ritenendo al contrario di lasciare ampia libertà e spazio alla autonomia negoziale degli associati, fornendo per le associazioni non riconosciute esclusivamente un impianto minimo di etero-normazione.

Si tratta di una volontà chiara, evidentemente legata alla peculiare natura e finalità (rectius causa) di tali entità, dotate di sola capacità giuridica e non di personalità giuridica. Volontà che si riflette, per quanto qui di interesse, anche sulle vicende associative “di crisi” che possono senz’altro interessare (anche) le associazioni non riconosciute.

 

Liquidare per conservare: un apparente paradosso

Nell’immaginario giuridico, “liquidazione” implica sovente la fine dell’attività: si liquidano gli asset, si realizza il patrimonio sociale, si soddisfano i creditori e si ripartisce l’eventuale residuo tra i soci o gli aventi diritto, al fine di procedere con la cancellazione/estinzione del soggetto collettivo.

Ciononostante, esistono situazioni in cui la liquidazione non ha lo scopo di cancellare l’associazione, bensì di tutelarla, conservarne il patrimonio e permetterle di continuare a svolgere – senza soluzione di continuità – la propria attività caratteristica, in attesa di un possibile, quanto realistico, rilancio.

È questo il senso della liquidazione a fini conservativi: una procedura avviata volontariamente dagli associati per mettere in sicurezza l’ente in un momento di difficoltà o inattività, senza cancellarne l’identità giuridica o disperderne i beni, così come d’altronde avviene per le società di persone/capitali.

La liquidazione volontaria può ricorrere in molteplici ipotesi in cui la stessa sia utile al “riassesto” dell’ente: inattività temporanea, contenziosi in corso, momentanea condizione di “compressione” finanziaria, ecc.

In questi casi, non si parla di scioglimento e/o estinzione, bensì di una temporanea situazione di difficoltà dell’ente, in cui la gestione dell’associazione non riconosciuta viene demandata ad un soggetto all’uopo incaricato (un liquidatore, che può essere un associato, un professionista esterno o un soggetto terzo di fiducia), il cui scopo sarà quello di conservare, documentare e custodire l’esistente, “risanare” i debiti, riscuotere eventuali crediti e proseguire l’attività caratteristica.

Invero, posto che le associazioni non riconosciute non vengono automaticamente cancellate in caso di messa in liquidazione delle stesse o di loro inattività per lunghi periodi, lo scioglimento e l’estinzione potranno essere disposte esclusivamente con apposita delibera assembleare.

D’altronde, in caso di liquidazione volontaria le uniche norme cui far riferimento – anche ai fini della verifica circa la regolarità e validità della connessa deliberazione, nonché dei suoi presupposti – sono quelle statutarie.

Trattasi di postulato confermato sia della giurisprudenza che della dottrina per cui, ancora una volta, sono inapplicabili analogicamente gli artt. 30 c.c. e 11-21 disp. att. c.c., non essendo la liquidazione delle associazioni non riconosciute soggetta al particolare regime dettato dalle norme citate.

Le decisioni, insindacabili, assunte dagli associati di un’associazione non riconosciuta -sostanzialmente “liberi” in tal senso e non assoggettati a controllo esterno – si devono quindi conformare esclusivamente alle prescrizioni contenute nello statuto.

Ciò non toglie che, pur nell’apparente semplicità formale e snellezza della procedura, la liquidazione volontaria vada condotta e gestita con rigore, nel rispetto degli interessi, oltre che dell’ente, dei creditori dello stesso, in modo tale da non comprometterne la relativa garanzia creditoria.

Per questo motivo, la liquidazione a fini conservativi rappresenta una scelta responsabile che consente di dare un assetto minimo alla struttura, di proseguire l’attività caratteristica e garantire che l’associazione non venga trascinata in situazioni pregiudizievoli anche per i propri creditori.

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