Una residualità senza par condicio, nuovi dubbi in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite.
A quanto pare, la storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 33954/2023 non ha dissipato tutti i dubbi sulla nota querelle dell’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. in tutti i casi in cui uno dei soggetti del rapporto sia una Pubblica Amministrazione.
O meglio, li ha sciolti – almeno per il momento – qualora il soggetto depauperato sia il soggetto che agisce nei confronti della Pubblica Amministrazione, la quale, invece, assume il ruolo di soggetto arricchito.
Ma come si pone il nostro ordinamento nel caso in cui il soggetto impoverito sia la Pubblica Amministrazione?
La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è intervenuta di recente con l’Ordinanza interlocutoria n. 1284/2025, affrontando ancora una volta il tema dibattuto dell’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento da parte della Pubblica Amministrazione, in caso di nullità del contratto di fornitura concluso con il privato per difetto di forma scritta. Il caso è peculiare perché, appunto, in questo caso la Pubblica Amministrazione riveste il ruolo di convenuto che invoca l’arricchimento ingiustificato.
Nel caso in questione, la P.A. è creditrice di una somma di denaro a titolo di canoni di fornitura idrica rimasti insoluti nei confronti di un privato, che ha promosso opposizione all’ordinanza di ingiunzione emessa da un ente pubblico locale il quale, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto dell’opposizione e in subordine la condanna del privato al pagamento del dovuto per la medesima somma oggetto di ingiunzione, invocando l’art. 2041 c.c..
Dopo l’accoglimento dell’opposizione in primo grado, in sede di appello la domanda riconvenzionale dell’Ente veniva accolta sul fondamento dell’art. 2041 c.c., nonostante la nullità formale del contratto. La parte privata, ricorrente in Cassazione, contestava la possibilità di riconoscere all’Ente (soggetto impoverito) un indennizzo quantificato come corrispettivo di una prestazione resa in forza di un contratto nullo: non può infatti operarsi una sorta di “fictio iuris“, considerando il contratto come esistente e valido in violazione dei principi di legalità e trasparenza amministrativa.
A tal proposito richiamava il principio giurisprudenziale più volte affermato in tema di azioni di indebito arricchimento proposte contro la P.A., secondo cui il rimedio in questione non è ammissibile nel caso di contratto concluso in violazione dei principi di legalità e correttezza, accordando al privato impoverito, sia pure a diverso titolo, il risultato che avrebbe conseguito se fossero state rispettate le norme di evidenza pubblica.
Tale principio, secondo il ricorrente, dovrebbe valere anche quando ad agire ai sensi dell’art. 2041 c.c. sia la stessa P.A. (come nel caso all’esame della Corte di Cassazione), in ossequio al principio di eguaglianza e parità delle parti.
Il riferimento è, come ovvio, alla nota questione di sussidiarietà dell’azione come chiarita dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 33954/2023, secondo cui, come noto, la domanda di ingiustificato arricchimento (autonoma e principale o subordinata alla principale) è proponibile se l’azione principale – fondata sul contratto, su una specifica disposizione di legge o su clausola generale – si riveli carente ab origine del titolo giustificativo, mentre è preclusa se tale azione è rigettata per prescrizione o decadenza del diritto azionato o per carenza di prova del pregiudizio subito o ancora per nullità derivante dall’illiceità del titolo contrattuale per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
Secondo la Corte, infatti, la nullità del contratto pubblico per difetto di forma scritta, pur integrando un’ipotesi di difetto del titolo fin dall’origine, difficilmente può ascriversi alla violazione di norma non imperativa, trattandosi di regole in tema di evidenza pubblica, dunque espressione del principio di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, ex art. 97 Cost.
Quindi sarebbe paradossale concludere che la violazione di una norma imperativa, che rende nullo il contratto consenta all’Ente pubblico di essere immune da responsabilità, garantendogli, quindi, il ristoro da ingiustificato arricchimento (secondo i giudici di secondo grado nel caso di specie) e gli consenta di ottenere un vantaggio patrimoniale sine causa, con esclusivo danno del soggetto tenuto alla controprestazione in denaro.
La previsione di nullità dei contratti della P.A., infatti, denota un chiaro disvalore enunciato dall’ordinamento, per cui le norme in discussione sono vere e proprie norme imperative, con conseguente inammissibilità dell’azione ex art. 2042 c.c., anche alla luce del richiamato insegnamento delle Sezioni Unite.
La Corte di Cassazione, dunque, ha colto l’occasione per riflettere su una questione ancora aperta: può l’azione di indebito arricchimento sopperire alla nullità di un contratto pubblico quando l’Amministrazione abbia comunque fornito una prestazione, pur in assenza di un valido titolo scritto? E soprattutto: è ammissibile tale azione quando il contratto sia nullo per violazione di norme imperative o di ordine pubblico?
La peculiarità, sottolinea la Corte, sta proprio nel fatto che nel caso di specie la P.A. assume il ruolo di soggetto “impoverito”, a fronte dei precedenti giurisprudenziali in tema di rapporto tra declaratoria di nullità dei contratti della P.A. per difetto di forma e ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa, che hanno, invece, come protagonista il privato in veste di attore.
Il Collegio ha quindi rimesso la questione alle Sezioni Unite, sollecitando chiarimenti su tre profili fondamentali:
- se, alla luce della Sentenza n. 33954/2023, in ordine alla residualità dell’azione di arricchimento senza causa ex art. 2042 c.c. e ove non risulti opportuna la definizione di “giusta causa” (in difetto della quale l’azione è ammissibile) l’ipotesi di nullità del contratto della P.A. per difetto di forma scritta rientri o meno nelle cause di nullità per violazione di norme imperative o per contrarietà all’ordine pubblico, integrando quindi un’ipotesi ostativa all’ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c.;
- se la valutazione sull’ammissibilità dell’azione possa variare, in caso di declaratoria di nullità del contratto per difetto di forma scritta, a seconda che il soggetto “impoverito” sia la stessa P.A. e non la sua controparte contrattuale;
- se, in caso di ammissibilità dell’azione, assuma rilievo la natura delle prestazioni dedotte (in particolare, prestazioni di “dare”) e la possibilità di ricorrere agli strumenti previsti dagli artt. 2033 ss. c.c. in tema di ripetizione dell’indebito oggettivo.
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, l’Ordinanza in oggetto conferma l’attualità e la delicatezza della questione, in bilico tra esigenze di giustizia sostanziale e rispetto delle garanzie formali imposte all’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione.
Pubblica Amministrazione e azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. E se il soggetto “impoverito” fosse la Pubblica Amministrazione?
A cura di Valeria Marzo, Associate
Una residualità senza par condicio, nuovi dubbi in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite.
A quanto pare, la storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 33954/2023 non ha dissipato tutti i dubbi sulla nota querelle dell’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. in tutti i casi in cui uno dei soggetti del rapporto sia una Pubblica Amministrazione.
O meglio, li ha sciolti – almeno per il momento – qualora il soggetto depauperato sia il soggetto che agisce nei confronti della Pubblica Amministrazione, la quale, invece, assume il ruolo di soggetto arricchito.
Ma come si pone il nostro ordinamento nel caso in cui il soggetto impoverito sia la Pubblica Amministrazione?
La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è intervenuta di recente con l’Ordinanza interlocutoria n. 1284/2025, affrontando ancora una volta il tema dibattuto dell’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento da parte della Pubblica Amministrazione, in caso di nullità del contratto di fornitura concluso con il privato per difetto di forma scritta. Il caso è peculiare perché, appunto, in questo caso la Pubblica Amministrazione riveste il ruolo di convenuto che invoca l’arricchimento ingiustificato.
Nel caso in questione, la P.A. è creditrice di una somma di denaro a titolo di canoni di fornitura idrica rimasti insoluti nei confronti di un privato, che ha promosso opposizione all’ordinanza di ingiunzione emessa da un ente pubblico locale il quale, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto dell’opposizione e in subordine la condanna del privato al pagamento del dovuto per la medesima somma oggetto di ingiunzione, invocando l’art. 2041 c.c..
Dopo l’accoglimento dell’opposizione in primo grado, in sede di appello la domanda riconvenzionale dell’Ente veniva accolta sul fondamento dell’art. 2041 c.c., nonostante la nullità formale del contratto. La parte privata, ricorrente in Cassazione, contestava la possibilità di riconoscere all’Ente (soggetto impoverito) un indennizzo quantificato come corrispettivo di una prestazione resa in forza di un contratto nullo: non può infatti operarsi una sorta di “fictio iuris“, considerando il contratto come esistente e valido in violazione dei principi di legalità e trasparenza amministrativa.
A tal proposito richiamava il principio giurisprudenziale più volte affermato in tema di azioni di indebito arricchimento proposte contro la P.A., secondo cui il rimedio in questione non è ammissibile nel caso di contratto concluso in violazione dei principi di legalità e correttezza, accordando al privato impoverito, sia pure a diverso titolo, il risultato che avrebbe conseguito se fossero state rispettate le norme di evidenza pubblica.
Tale principio, secondo il ricorrente, dovrebbe valere anche quando ad agire ai sensi dell’art. 2041 c.c. sia la stessa P.A. (come nel caso all’esame della Corte di Cassazione), in ossequio al principio di eguaglianza e parità delle parti.
Il riferimento è, come ovvio, alla nota questione di sussidiarietà dell’azione come chiarita dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 33954/2023, secondo cui, come noto, la domanda di ingiustificato arricchimento (autonoma e principale o subordinata alla principale) è proponibile se l’azione principale – fondata sul contratto, su una specifica disposizione di legge o su clausola generale – si riveli carente ab origine del titolo giustificativo, mentre è preclusa se tale azione è rigettata per prescrizione o decadenza del diritto azionato o per carenza di prova del pregiudizio subito o ancora per nullità derivante dall’illiceità del titolo contrattuale per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
Secondo la Corte, infatti, la nullità del contratto pubblico per difetto di forma scritta, pur integrando un’ipotesi di difetto del titolo fin dall’origine, difficilmente può ascriversi alla violazione di norma non imperativa, trattandosi di regole in tema di evidenza pubblica, dunque espressione del principio di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione, ex art. 97 Cost.
Quindi sarebbe paradossale concludere che la violazione di una norma imperativa, che rende nullo il contratto consenta all’Ente pubblico di essere immune da responsabilità, garantendogli, quindi, il ristoro da ingiustificato arricchimento (secondo i giudici di secondo grado nel caso di specie) e gli consenta di ottenere un vantaggio patrimoniale sine causa, con esclusivo danno del soggetto tenuto alla controprestazione in denaro.
La previsione di nullità dei contratti della P.A., infatti, denota un chiaro disvalore enunciato dall’ordinamento, per cui le norme in discussione sono vere e proprie norme imperative, con conseguente inammissibilità dell’azione ex art. 2042 c.c., anche alla luce del richiamato insegnamento delle Sezioni Unite.
La Corte di Cassazione, dunque, ha colto l’occasione per riflettere su una questione ancora aperta: può l’azione di indebito arricchimento sopperire alla nullità di un contratto pubblico quando l’Amministrazione abbia comunque fornito una prestazione, pur in assenza di un valido titolo scritto? E soprattutto: è ammissibile tale azione quando il contratto sia nullo per violazione di norme imperative o di ordine pubblico?
La peculiarità, sottolinea la Corte, sta proprio nel fatto che nel caso di specie la P.A. assume il ruolo di soggetto “impoverito”, a fronte dei precedenti giurisprudenziali in tema di rapporto tra declaratoria di nullità dei contratti della P.A. per difetto di forma e ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa, che hanno, invece, come protagonista il privato in veste di attore.
Il Collegio ha quindi rimesso la questione alle Sezioni Unite, sollecitando chiarimenti su tre profili fondamentali:
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, l’Ordinanza in oggetto conferma l’attualità e la delicatezza della questione, in bilico tra esigenze di giustizia sostanziale e rispetto delle garanzie formali imposte all’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione.